La ripartenza economica oltre la paura del virus

La cosiddetta Fase 2, quella della ripartenza economica in regime di limitazioni sanitarie COVID19, sarà il momento di riscontro dei timori dei cittadini, delle imprese e degli amministratori. Una ripartenza prudente organizzata a fisarmonica, secondo l’ultima lettura dei dati: le restrizioni si allenteranno soltanto se i posti letto ospedalieri disponibili saranno ritenuti sufficienti, in una sconsolata relazione tra produttività decelerata, scampoli di vita sociale e rincorsa alla sperimentazione di un vaccino.

L’opinione realistica e documentata – se pure fondata sulle volatili previsioni del periodo –  è che per circa ventiquattro mesi questa sarà la nuova normalità; un’economia senza aggregazione sociale, priva dell’ottimistica emotività che sostiene i consumi, orientata alla ridefinizione delle necessità e delle priorità personali al ribasso. Attività commerciali in ginocchio, città desertificate, imprese con magazzini di prodotti invendibili; filiere e settori spazzati via, investimenti cancellati, fiducia tra gli operatori da ricostruire: una detonazione di entropia, ovvero della tendenza al disordine delle cose. Gran parte delle attività basate sulla complessità saranno abbandonate: nessuno troverà interessante investire o soltanto operare in catene lunghe, dove il collasso di un solo anello potrà mandare in malora l’intero processo. I servizi professionali tradizionali si ridurranno al loro essenziale margine di utilità, senza risorse per le strutture e per il personale, senza ragioni di sostenere il peso di costi di locazione; saranno in larga parte ghost office, scantinati con computer da tavolo, manuali ed archivi, simili a quelli in cui i bambini di latitudini svantaggiate cuciono i palloni per le multinazionali. Senza industrie dell’intrattenimento ci immergeremo in una lunga apnea, fatta di riprogrammazione cinematografica, di asettici eventi sportivi e culturali giocati e recitati senza audience; sarà la devastazione delle routine borghesi, senza frequentazioni di club house, di ristoranti, aperitivi e di tavoli del backgammon.

Non so se effettivamente si adotterà lo strumento della patente lasciapassare per i cittadini negativi al tampone; ammesso che l’esame sia accurato ed ammesso che sveli sia l’immunità che l’incapacità di contagio.  Di certo la mobilità delle persone sarà largamente frenata, sostituita da ogni sorta di relazione virtuale, che tutto riesce a fare tranne trasferire valore, ovvero la sostanza di qualunque scambio produttivo. Qualcuno imparerà a fidarsi di un banner lampeggiante, altri daranno fondo alla propria riserva di reputazione per ricollocarsi phygital, come dicono gli stramaledetti anglofoni: una nuova specie di meticcio tra fisico e digitale. Calerà il potere d’acquisto della classe media ed una sempre più efficiente logistica moltiplicherà la consegna di merci sempre più povere, o quantomeno con prezzi sempre più vicini ai costi reali. Nel prezzo di una scatoletta di tonno comprata online non ci potrà più essere il costo quota parte del supermercato, ma più semplicemente dello sdoganamento dalla fabbrica; il delivery non potrà avere gli stessi costi del ristorante, soprattutto perché saranno pochi quelli che ordineranno i tagliolini al gusto di cartone o incollati alla plastica. Qualcuno comprerà fashion per essere elegante in casa propria e finalmente vedremo quanti erano quasi sinceri nel dire frasi del tipo “compro lusso per compiacere me stesso”. Con rinnovato risentimento guarderemo alle banche ed al loro ruolo di intermediario, se sapranno cogliere o meno l’occasione di svolta, piuttosto che imporre commissioni per burocrazie obbligate ed obbligatorie; perderemo di vista una delle razze più pruriginose del secolo scorso: gli innovatori. Quelli che sono sopravvissuti parlando di qualcosa che non hanno realizzato: il nuovo percorso di crescita si chiamerà rigenerazione, con molta più attenzione alla salute immediata dell’uomo che allo scioglimento dei ghiacci. Brevetti per la sanità, per l’igiene della persona, per sterilizzare, per neutralizzare: saranno il terreno per nuove imprese e richiameranno finanza e consumatori; filiere corte di aziende incorporee, fatte di furgoncini da carico e di app, per modelli organizzativi basilari e disintermediati. Il mercato delle materie prime, in proporzione, attirerà gli investimenti molto più dell’industria di trasformazione; qualcuno proverà a fare da rating all’inciampo dei valori immobiliari e scoprirà, nel migliore dei casi, di essere riuscito soltanto a pisciarsi sui piedi. Il clima sarà incrudelito e nuove forme di cannibalismo imprenditoriale sono attese: esaurita la solidarietà delle fanfare da balcone, ci troveremo tutti a fronteggiare l’esigenza di riempire spazi lasciati vuoti attorno a noi: di lavoro, di prodotto o di servizio, di fornitura e di consegna. Come macchie di leopardo da essere cancellate o conquistate: clientele contendibili, fornitori impallati, grossisti inadempienti e consumatori disorientati: il tutto impastato nella retorica dell’opportunità, balsamo delle coscienze di quelli che vivono di sopruso e di destrezza. I capitani d’impresa lasceranno finalmente le copertine patinate dei giornali o dei social, le pose euforiche da cioccapiatti e torneranno in azienda, in ufficio a trainare il lavoro degli altri con il piglio severo e padronale dei loro nonni. Non ci salverà l’enfasi del primato culturale, ma la capacità di adattarci senza imbarazzo ad un mansionario declassato: per tutti una pagina bianca dove riscrivere il proprio destino, sostenuti da riadattate competenze e da un’accurata lettura strategica di medio periodo di questa congiuntura; sarà doloroso per qualcuno uscire dal business, sarà colposo non cercare di rientrare nel modo adeguato al periodo.

Dietro di noi ci sono famiglie che non ci biasimeranno per quello che è accaduto; semmai per come avremo mancato di reagire.

 

di Sandro Serenari/Ss©

Economista

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